Comitato Uno di Noi, nuova riflessione sul tema dell’aborto

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Se la retorica dei pro-choice (ovvero coloro che vogliono l’aborto) recita che “nessuna donna abortisce a cuor leggero”, la realtà ci insegna che per alcune donne l’aborto non rappresenta né un problema né un tabù, anzi spesso è nell’immediato la rapida risoluzione di un problema.

Tuttavia, per molte donne non è così.

Chi lo dice? Lo dicono i dati scientifici riportati nelle più importati riviste del settore e documentati da parte di scienziati non certo schierati dal punto di vista religioso. Certo, per chi si occupa di scienza è noto che non esistono dati incontrovertibili e che gli stessi spesso sono ribaltati da altre evidenze; ma vi sono fonti considerate serie ed attendibili in quanto non cercano di “distrarre” colui che analizza i dati per i propri secondi fini.

Da dati pubblicati sulla rivista scientifica PubMed si evince che nell’immediato del post interruzione volontaria di gravidanza molte donne descrivono emozioni negative che spaziano tra tristezza, solitudine, vergogna, senso di colpa, dolore, dubbi e rimpianto.

In uno studio canadese effettuato a distanza di 3 anni dall’interruzione volontaria della gravidanza, la maggior parte delle partecipanti ha riferito di provare un dolore significativo. Una ulteriore ricerca condotta a distanza di 5 anni dall’aborto ha dimostrato che prevalgono i sensi di colpa, di vergogna nonché di ansia.

Uno studio condotto in Nuova Zelanda nel 2006 ha rilevato che il 42% delle donne che avevano fatto ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza mostrava disturbi depressivi ed il 30% mostrava disturbi mentali di vario genere.

Uno studio pubblicato sul “Medical Science Monitor” ha dimostrato che nel post aborto si corre un rischio maggiore del 65% di soffrire di depressione rispetto al post partum; e che l’aborto pone un rischio depressivo fino ad 8 anni dopo l’evento.

Altro disturbo psichico tipico del post aborto è il disturbo post-traumatico da stress (DPTS). Uno studio del 2011 dimostra come lo stesso si presenti con punteggi elevati in donne che subiscono un aborto (anche spontaneo) e di come aumenti significativamente negli aborti indotti con pillole abortive. Questa evenienza è tipica dell’aborto farmacologico che, come abbiamo già in precedenza detto, mette la donna in una condizione di piena solitudine e di fronte a rischi di vario genere, compreso quello di morte (Harvard Medical School): 1 caso su 100.000 contro 0.1 su 100.000 nel caso dell’aborto chirurgico.

Dati del 2013 indicano che tra coloro che hanno abortito volontariamente aumenta in maniera significativa il rischio di abuso di sostanze e di comportamenti autolesionistici. Studi recenti pubblicati su riviste internazionali di pediatria e neonatologia concludono evidenziando che vi possa essere un comportamento aggressivo nei confronti di figli nati in seguito ad un aborto volontario. Nelle conclusioni dello studio stesso viene detto: “per anni l’aborto è stato considerato una procedura medica benigna che comportava pochi o nessun potenziale effetto negativo duraturo…per molte donne l’aborto è un problema con profonde dimensioni fisiche, psicologiche, spirituali e comportamentali legate a molti aspetti della loro vita”.

Altri dati si potrebbero annoverare ma di fronte ad essi subentra un quesito impellente: DOV’E’ IL FEMMINISMO IN TUTTO CIO’? Ci pare evidente che quando si propone come soluzione l’interruzione volontaria di gravidanza tutto si possa dire tranne che ci si stia adoperando per la donna ed in particolare per la sua salute fisica, psichica e riproduttiva. Al contrario a noi pare che non si faccia che favorire una dimensione di profonda sofferenza e solitudine, ribaltando sulla donna, già in difficoltà, ogni responsabilità e liberando il maschio e la società da ogni serio impegno nei suoi confronti. Le donne che attraverso le leggi abortive si sentono libere di effettuare una pratica così devastante per loro e per la vita che portano dentro in realtà vengono invitate ad accomodarsi in solitudine in un consultorio che spesso non si prende carico di loro in quanto persone e madri, ma che al contrario le accompagna al mattatoio lasciandole sole sia prima che dopo. Le stesse donne torneranno in una società che continuerà a non vederle, con gli stessi problemi che avevano prima della gravidanza e con il peso di ciò che si porteranno dentro, spesso per tutta la loro esistenza. Non è il genere di “femminismo” in cui ci riconosciamo.

Noi vogliamo vivere all’interno di una società che abbia invece al centro la persona, ogni persona, che la aiuti e che si prenda cura, insieme a lei, delle sue difficoltà.

Il Comitato UNO DI NOI